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Pompeo nel caleidoscopio delle fonti (e dei moderni)

Storia antica. Da Momigliano a Syme, controversa è l’interpretazione novecentesca del rivale di Cesare: Luca Fezzi ha scritto un profilo (Pompeo, Salerno Editrice) che lascia parlare la tradizione antica, senza cercare a ogni costo un rimontaggio coerente
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Apollonio di Giovanni (1414-’65), La battaglia di Farsalo, part.


Carlo Franco

Edizione del29.09.2019

Pubblicato 29.9.2019, 0:29

Aggiornato 26.9.2019, 19:30


Più di altri personaggi di Roma antica, Pompeo il Grande ha ispirato definizioni memorabili e taglienti. Sallustio lo giudicò «d’aspetto onesto, di animo corrotto»; Tacito, paragonandolo a Mario e Silla, lo dichiarò «più ambiguo, ma non migliore» di loro. Nel Novecento, il raffronto con Cesare venne espresso da Ronald Syme con sintetica efficacia: «Caesar would tolerate no superior, Pompeius no rival». Di lui resta un noto ritratto in marmo, e si tramandano varie frasi celebri: «Inevitabile è prendere il mare, non lo è restare in vita» divenne poi motto abusato di D’Annunzio e Mussolini. Pare affermasse che per lui valeva di più «l’eternità rispetto a un giorno solo»: ma fu un giorno solo, nell’agosto del 48 a.C., a segnare il suo destino eterno. Nell’immediato, perché perdette la battaglia di Farsalo e a seguito di essa la vita; in futuro, perché a quella giornata si lega la pagina feroce in cui Cesare mostra, come in un documentario, che nel campo di Pompeo dopo la sconfitta «si poté vedere» gran quantità di argenteria, tende lussuose, e molto altro che indicava «eccessiva fiducia nella vittoria, sicché si poteva facilmente capire che costoro non avevano avuto timori circa l’esito del giorno, giacché si erano circondati di piaceri non necessari». Sono parole taglienti e faziose, che tolgono ogni decoro allo sconfitto. Né si può dimenticare la scena dei generali di Pompeo che litigano prima della battaglia, per spartirsi le cariche (le «poltrone», si direbbe oggi) da occupare dopo, da sicuri vincitori.
Diversificata è la valutazione della critica. Nel 1935 Arnaldo Momigliano definiva Pompeo un «rivoluzionario – tra politico e avventuriero – di finissimo fiuto» che però «fu in tutta la sua carriera rigidamente costituzionale»; nel 1939 la sua carriera appariva a Syme «iniziata nell’inganno e nella violenza, e proseguita, in guerra e in pace, per mezzo dell’illegalità e del tradimento». Il personaggio, proprio perché così controverso, è interessante assai. Ebbe grandi successi militari, in oriente e in occidente (vinse combattendo in tre continenti, annotavano gli antichi: e qualche carta geografica in più avrebbe giovato nel libro). Seppe abilmente gestire la politica in decenni difficili, schiacciando i rivali o rendendoli irrilevanti, e servendosi senza scrupoli di uomini in vista (come Cicerone). Costruì una personalità carismatica, richiamandosi anche in modo esibito a Alessandro il Grande. A frenarne l’azione non furono gli scandali o la corruzione, eterne armi del potere a Roma, ma i tratti di ambigua dissimulazione, le discontinuità nella lotta. Sicché, a ripensarne l’esperienza, non si sfugge a un senso di incompiutezza, all’ambivalenza di un progetto mal definito: quello di un uomo ambizioso, che mirava al «principato» ma ebbe incertezze e commise fatali errori.
Pompeo veniva dal gruppo e dal modello di Silla: ma il confronto con loro è penalizzante. La «legalità» cui egli e la sua fazione si richiamavano era concetto troppo ambiguo per reggere. Pompeo cominciò a perdere, ben prima d’esser sconfitto in campo, quando al culmine della potenza, di ritorno da una campagna militare vittoriosa, licenziò le proprie truppe, fidando nel senato. Si alleò con Crasso e Cesare solo per riparare questa scelta irrimediabilmente errata, che Cesare e poi Ottaviano (futuro Augusto) si guardarono bene dal ripetere. Morto Crasso, il rapporto tra i due rivali non resse, e si arrivò allo scontro aperto nel 49 a.C. La sua decisione di abbandonare Roma al sopravvenire di Cesare rappresenta uno snodo fondamentale.
Per quale via dunque affrontare una figura simile? Luca Fezzi, in questo suo Pompeo (Salerno Editrice, pp. 318, € 25,00), ha scelto una sorta di «oggettività»: lascia quindi parlare in prevalenza la tradizione antica, evitando di far pesare il pre-giudizio dell’interpretazione storiografica. L’evidenza, trattandosi di fasi politicamente convulse e poi di una guerra civile, non è certo univoca, né solo per dettagli minori. Scelta importante è quella di non procedere a un rimontaggio delle fonti allo scopo di ottenere un racconto unitario e di rassicurante «buon senso»: in più punti le diverse narrazioni sono poste in sequenza, lasciando al lettore il compito di valutarne l’attendibilità. Particolarmente interessanti, per la fase dello scontro con Cesare, sono le lettere di Cicerone e dei suoi corrispondenti: non perché più «vere» di altre testimonianze, ma perché in esse si colgono assai bene le incertezze e i faux pas in cui le informazioni incerte e spesso sbagliate inducevano i contemporanei. Come nei diari, ciò restituisce il senso degli eventi in corso, ancora non riletti e ordinati dal «senno di poi». Né aderenza alla tradizione significa narrazione anodina. Il sottotitolo del libro, «Conquistatore del mondo, difensore della res publica, eroe tragico», individua le linee di giudizio. In particolare, si riconosce a Pompeo l’intento di restare pur sempre all’interno dell’esperienza repubblicana, senza cercare, come Cesare, la via «monarchica».
La biografia è scandita in tre fasi: fino al 70 a.C., con le vittorie in guerra e il primo consolato; fino al 52 a.C. con l’apogeo del potere, e poi fino al tragico 48 a.C., con la sconfitta e la morte. Entrambe non furono un esito scontato: gli appoggi di cui Pompeo godeva erano molti, e notevoli erano le sue forze. La campagna di Grecia presentò anche per Cesare criticità notevolissime: forse il tempo avrebbe favorito Pompeo, che affrettò invece lo scontro campale. La sconfitta di Farsalo segnò la fine anche dell’aristocrazia repubblicana, che aveva creduto di fermare Cesare servendosi del suo rivale. Bisogna ammettere che la successiva fine di Pompeo, trucidato a tradimento in Egitto dove si era recato a cercare appoggio presso un re che era al potere grazie a lui, appare un esito assai squallido (al confronto, perfino una certa fucilazione a Giulino di Mezzegra ha una sua cupa grandezza). Cominciato con il racconto della morte del protagonista, il libro si chiude tornando all’inquadratura iniziale (il morto decapitato sulla spiaggia, di cui si sarebbe ricordato anche Virgilio: iacet ingens litore truncus…). Ma se a Farsalo le cose fossero andate diversamente? Questa la risposta di Ronald Syme alla sfida controfattuale: «Had Pompeius conquered in battle, the Republic could hardly have survived. A few years, and Pompeius the Dictator would have been assassinated in the Senate by honourable men, at the foot of his own statue». Ecco il vantaggio di essere posteri: immaginare, con l’aiuto di Shakespeare, l’identità di quegli «honourable men».
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E dopo tante parole,

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